Non solo Honor. Ecco perché il software Huawei dovrebbe preoccuparci

Volta: 03/Feb Di: kenglenn 726 Visualizzazioni

Non serve presentare Huawei, il gigante tecnologico cinese accusato di spionaggio dagli Usa e per questo colpito da sanzioni negli ultimi due anni. Anche in Italia (e in Europa) l’azienda è vista come fornitore potenzialmente rischioso, per via dei legami con Pechino e la legge cinese che garantisce allo Stato accesso totale ai dati dei clienti, inclusi quelli stranieri.

Negli ultimi due anni Huawei ha dovuto reinventarsi. Ha potenziato il comparto software e ceduto una divisione, Honor, vendendola a una controllata dello Stato cinese ma liberandola dal giogo delle sanzioni. Questo ha attirato l’attenzione dei senatori americani, che ora chiedono a gran voce di sanzionare Honor – dato che si tratterebbe dello stesso pericolo sotto un altro nome.

C’è però un problema più ampio: presto le sanzioni potrebbero diventare obsolete. Il nuovo gioiello della corona di Huawei ha un nome – Harmony OS – e una strategia per inserirsi in qualsiasi genere di dispositivo, indipendentemente dal brand, dando all’azienda la possibilità di arrivare silenziosamente su miliardi di dispositivi e passare sotto il radar dei regolatori.

Il declino

Nel 2019 l’amministrazione Trump inserì Huawei e una settantina di affiliati nella blacklist, limitandone l’accesso ai fornitori Usa. Questo impedì all’azienda cinese di ottenere molte componenti sofisticate, necessarie per gli smartphone avanzati, e la tagliò fuori anche dall’ecosistema di Google.

L’azienda di Shenzen poteva continuare a utilizzare Android, un sistema open source, ma non poteva avvalersi delle app di Google né tantomeno dei servizi proprietari Google Mobile Services (GMS), spina dorsale dei telefoni Android, che controllano funzioni essenziali come notifiche, sicurezza, localizzazione.

Questa sequenza di colpi ha minato alla base il successo dell’azienda, che a metà 2020 era il primo produttore di telefoni al mondo. Nemmeno un anno dopo Huawei era passata dal 20% al 4% della quota di mercato globale. Ma a Shenzen non sono mai rimasti con le mani in mano.

Il piano B

Quando le sanzioni la colpirono, Huawei non si fece trovare impreparata. “Abbiamo predisposto il nostro sistema operativo. Se mai dovesse accadere che non possiamo più utilizzare [i sistemi americani], saremmo pronti. Questo è il nostro piano B,” disse allora a Die Welt l’ad di Huawei, Richard Yu.

Due anni dopo l’alternativa è matura: si chiama Harmony OS (Hongmeng OS in Cina) e l’ultima versione è stata installata su almeno 120 milioni di dispositivi Huawei e Honor tra telefoni, tablet e orologi, ma non solo.

Harmony non è mai stato un sistema operativo “classico”. Concepito nel 2016 per far girare dispositivi internet of things (IoT) come schermi, orologi, ma anche termostati e frigoriferi, con Harmony l’obiettivo di Huawei era giocare d’anticipo sulla vita interconnessa e progettare anzitempo un sistema nato per connettere dispositivi anche diversissimi.

Più propriamente – e a detta della stessa Huawei – si tratta di una piattaforma per diversi dispositivi, una sorta di “motore” amorfo. Un’app Harmony funziona agevolmente (e senza bisogno di aggiustamenti) su qualsiasi tipo di dispositivo, dal microonde allo smartphone. L’intero sistema è estremamente flessibile, cosa che ha permesso a Huawei di rimaneggiarlo per ridurre la sua dipendenza da Google.

Oggi funziona così: Huawei prende Android, ci affianca il “cuore” (kernel) di Harmony e ribattezza l’intero sistema. Quel kernel è ciò che permette all’azienda di sostituire i servizi GMS con i propri (Huawei Mobile Services, o HMS). Ma non sono solo i telefoni aggiornati con Harmony OS a dover preoccupare i regolatori: è l’intera piattaforma.

Un pericolo diffuso

Harmony è un prodotto all’avanguardia, concepito come base dell’IoT. È stato progettato apposta per essere adottato da altri brand e collegare dispositivi diversi tra loro: una vera panacea per il consumatore cinese e dunque il mercato cinese, dove la competizione è feroce e la frammentazione software dilagante.

I principali brand di telefonia cinesi come Xiaomi, Oppo e Vivo hanno già manifestato interesse a sostituire Android con Harmony OS, come già avviene con i telefoni Huawei e Honor sia in Cina che all’estero. Da parte sua il fondatore di Huawei Ren Zhengfei ha detto ai dipendenti che Huawei deve diventare un gigante software per sfuggire alle sanzioni americane, e l’azienda vuole portare Harmony su 1,2 miliardi di dispositivi nel 2022.

La strada sembra tracciata: Harmony ha ottime possibilità di diventare pervasivo nei prodotti cinesi, compresi quelli venduti in tutto il mondo. E qui occorre ricordare che in Cina i confini tra Stato e impresa sono molto labili, inesistenti a volte, in virtù della legge locale: uno dei motivi per cui la tecnologia cinese spaventa i regolatori occidentali.

Con Harmony cambiano le regole del gioco perché crolla il concetto di fornitore poco affidabile: che senso ha osteggiare una singola marca come Huawei quando il suo sistema operativo, creato e mantenuto in seno allo Stato cinese, fa muovere telefoni, smartwatch, elettrodomestici e perfino case intelligenti?

Sempre più oggetti diventeranno connessi nell’IoT e la Cina è il maggior produttore, nonché esportatore, dell’elettronica di consumo. Considerando anche la necessità di compiere la transizione digitale, fare a meno del tech cinese è fondamentalmente impensabile anche per i Paesi più ricchi.

Se va bene Harmony promuoverà la competizione, se va male l’integrazione hardware cinese-Harmony diventerà così solida da non ammettere alternative. Si può pensare di differenziare completamente i software cinesi e occidentali, questione molto complessa e che richiede regolamentazione di difficile attuazione. L’alternativa è rassegnarsi a convivere con tecnologie che sfuggono al controllo dei nostri ordinamenti.

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